La scarsa rappresentatività dei pazienti inseriti nelle sperimentazioni cliniche è considerata uno dei fattori centrali che determinano la differenza tra l’efficacia ottimale di un intervento, misurata nelle condizioni artificiali che si creano nella sperimentazione clinica (efficacy), e i suoi effetti sulle popolazioni alle quali è destinato (effectiveness). Questi pazienti tendono a essere molto particolari, rispetto ai potenziali destinatari dell’intervento, per età, sesso, prognosi, comorbilità, “fitness”, e anche per caratteristiche sociali (livello di reddito/istruzione, appartenenza a specifici gruppi etnici o linguistici, ecc).
Dove nasce la confusione
In quasi tutte le discussioni sulla metodologia delle sperimentazioni cliniche, si confondono però le due principali problematiche che derivano da queste differenze:
- in un’ottica di sanità pubblica, l’impossibilità di desumere direttamente dai risultati del trial il complessivo impatto sanitario che deriverà dall’introduzione di un intervento in una popolazione;
- sul piano clinico, la difficoltà a valutare l’opportunità di utilizzare l’intervento in categorie di pazienti (per esempio, tipicamente, i pazienti anziani) che non erano (o erano sotto-) rappresentati nel trial.
Questa confusione si riflette nelle indicazioni che vengono date su questo tema: da un lato, si predica la necessità che i criteri di inclusione dei trial clinici siano sempre meno restrittivi, così da includere le categorie di pazienti oggi sottorappresentate; mentre dall’altro si ipotizza un ruolo salvifico degli studi osservazionali nella valutazione dell’effectiveness (la cosiddetta comparative effectiveness research).