Una tecnologia che potrebbe far risparmiare fino a cinque anni di tempo e fino al 20% del costo totale di sviluppo di un farmaco (in miliardi di euro) più solide conoscenze su cui basare le delicate fasi iniziali della sperimentazione e al contempo essere strumento per una medicina sempre più personalizzata. Dieci anni fa la biologa Geraldine Hamilton durante il suo talk a Ted l’aveva chiamata “organo su chip”. L’allora Ceo di Emulate, uno spin-off dell’Università di Harvard, aveva presentato un lavoro che aveva riunito ricercatori di diversi ambiti, nato da una vera e propria interconnessione di competenze biomedicali, frutto di uno specifico know-how proveniente dal campo dell’ingegneria elettronica, biomedica e della fisica. Trattasi di un organo su chip che qualcuno ha definito anche micro-bioreattore e che in alcuni casi viene chiamato sistema microfisiologico (microphysiological system, Mps). In pratica un modello multicellulare che riproduce determinate parti di un tessuto e le sue funzioni di base.
Il dispositivo, che ha all’incirca le dimensioni di una batteria AA, consente la coltura 3D di differenti tipi di cellule che costituiscono un organo; sul chip è possibile inserire sia cellule sane che malate, come ad esempio le cellule tumorali. Queste sono poste in un chip microfluidico, ossia un chip con piccoli canali in cui è possibile manipolare con precisione piccole quantità di fluidi; attraverso questi canali i nutrienti e il fluido raggiungono le cellule che si trovano all’interno delle camere di coltura, mentre i metaboliti e i detriti cellulari vengono rimossi.